7 giu 2022 E’ nullo il licenziamento disciplinare collegato alla condotta mobbizzante tenuta dal datore di lavoro ai danni del dipendente (Corte di Cassazione, Ordinanza 31 maggio 2022, n. 17702). La vicenda La Corte di Appello territoriale ha confermato la sentenza di prime cure che aveva ritenuto nullo il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore dalla società datrice, in quanto fondato su un unico motivo illecito, ossia la volontà espulsiva della stessa. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società. La decisione della Cassazione La Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso, volto esclusivamente a contestare la ricostruzione dei fatti compiuta nei gradi di merito, ed ha ritenuto la sentenza impugnata coerente con i consolidati principi stabiliti dalla giurisprudenza, secondo cui, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative stressogene o mobbizzanti ed il giudice del merito è tenuto a valutare se dagli elementi noti possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza del danno. La Suprema Corte, sul punto, ha evidenziato che tutte le contestazioni della società datrice, mirassero, nel caso sottoposto ad esame, ad un diverso apprezzamento delle circostanze di fatto, in particolare, richiamando impropriamente la violazione da parte della Corte distrettuale degli artt. 115, 116 e 2697 c.c..
La Corte ha, difatti, collocato il procedimento disciplinare che aveva determinato il licenziamento in un contesto in cui nei confronti del dipendente risultavano provati i sistematici e reiterati comportamenti ostili, originanti forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, con mortificazione morale dello stesso e con effetto lesivo del suo equilibrio fisico psichico e del complesso della sua personalità;
valutati, dunque, i molteplici addebiti mossi al lavoratore, i giudici hanno ritenuto che i fatti contestati dovessero ritenersi insussistenti, essendo tutti o non provati nel loro verificarsi, o non riconducibili con certezza al lavoratore, ovvero non disciplinarmente rilevanti; pertanto hanno condiviso le conclusioni del giudizio di primo grado, secondo cui il licenziamento doveva porsi in correlazione con la condotta mobbizzante tenuta ai danni del dipendente, una volta riconosciuto alla base di esso, come unico motivo, la volontà di liberarsi e di colpire il lavoratore, conseguenza ultima delle condotte vessatorie tenute a suo carico.
A tale riguardo i giudici hanno, dunque, evidenziato che, invero, le invocate violazioni ricorrono solo nei casi in cui il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti o non abbia operato secondo il suo prudente apprezzamento, non, viceversa, quando lo stesso, come avvenuto nel caso di specie, abbia valutato le prove proposte dalle parti, attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.
Con riferimento, in particolare, alla pretesa violazione dell’art. 2697 c.c., la Corte ha, altresì, ribadito che la sussistenza della stessa ricorre soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella onerata e non, invece, qualora oggetto di censura sia la valutazione che lo stesso giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, così come avvenuto nel caso concreto, in cui la società datrice si era limitata a criticare l’apprezzamento operato dai giudici di merito circa l’esistenza delle condotte vessatorie, proponendo una diversa valutazione e richiedendo, erroneamente, un sindacato non consentito alla Corte di legittimità.